Studio Panigati

 





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Amalia Panigati

Amalia Panigati è considerata dalla critica una delle maggiori personalità artistiche del Novecento nel campo della pittura a fuoco su vetro.
Nacque nel 1901 a Corsico di Milano in una famiglia per cui l’arte da generazioni era un modo e una scelta di vita. I bisnonni Ripamonti Carpano erano stati editori di stampe d’arte, il nonno Angelo Panigati fu anch’egli editore e quindi fondatore di un’azienda di vetrate artistiche, la Luigi Fontana & C. (oggi Fontana Arte), il padre Costante Panigati fu vetratista nella stessa ditta Fontana e pittore.
Le prime esperienze di Amalia Panigati nel mondo della lavorazione delle vetrate artistiche avvengono nel 1914 a Milano nella Società Fontana proprio sotto la guida del padre Costante che ne è dal 1885 direttore artistico.
Nel 1919 diviene assistente, in qualità di direttore artistico e capo tecnico, del pittore Giovan Battista Gianotti, nelle sue Officine Riunite d’Arte Decorativa. Qui dipinge, compone a mosaico semplice e a mosaico lombardo, esegue affreschi, smalti a fuoco su rame o su vetro, ceramiche, pannelli decorativi murali o su tela, graffiti policromi e vetrate dipinte a gran fuoco.
Nel 1925 torna di nuovo alla Ditta Fontana chiamata in qualità di disegnatrice e pittrice del reparto pittura a fuoco. Ne diviene in breve, assieme al padre, condirettrice artistica. Avrà però un compito distinto: sarà l’interprete delle nuove tendenze espressive.
Dal 1932 lavorerà in proprio e dal 1945 fino 1975 (anno della sua morte) avrà un suo studio d’arte sempre a Milano, in Via della Signora.
Pittrice, vetratista, insegnante all’Accademia di Brera, ha esposto in oltre cinquecento mostre nazionali ed internazionali a partire dagli anni ’20. Per citarne solo alcune: Esposizioni Internazionali Biennali di Monza del 1923-’25-’27 e Triennale del ‘30, Esposizione Internazionale di Arti Decorative e Industriali di Parigi del ’25, Internazionale Biennale di Venezia del 1931, Internazionale d’Arte Sacra di Padova del ’31, Raccolta Internazionale d’Arte Sacra alla Permanente di Milano nel ’31, Triennali d’Arte Decorativa di Milano del ‘33, ’36, ’51, ’54, Museo Jeu de Paume di Parigi nel ’37, Internazionale di Arte e Tecnica a Parigi nel ’38, Permanente di Milano nel ’32-’33-’35-’38-’40-’57-’62-’66-’69, Esposizione Mondiale di San Francisco nel ’39, Riverside Museum di New York nel ’40, tutte le edizioni delle Mostre d’Arte Sacra dell’Angelicum di Milano dal ’42 e dell’Antoniano di Bologna, Aragua di Barcelona (Venezuela) nel ‘48-‘49, Mostra Mondiale Vaticana nel ’50, Mostra d’Arte Sacra a San Paolo del Brasile nel ’51-‘52, Mostre d’Arte Contemporanea di Roma del ’54-’55-’62, Bissietta Art Gallery a Sidney in Australia nel ‘56, Corning Museum di New York nel ’58, di nuovo a New York nel ’62 e ’65, Esposizione Mondiale di Montreal (Canada) ‘62-’64, Utrecht (Olanda) e Galway (Irlanda) nel ’62-’63, Darmstadt e Francoforte nel ‘63-‘64, Mosca nel ’65, Quebec (Canada) nel ’66, Mostra itinerante italo argentina in sud America, a Buenos Aires, Cordoba, Salta, Montevideo, Rosario, Mendoza nel ’67-’68, ecc, ecc. Molti suoi dipinti figurano nelle raccolte delle Gallerie d’Arte Moderna di Milano, Roma Vaticano, Parigi, Londra, Mosca, New York, San Francisco, Chicago, ecc.
Le sue vetrate, eseguite quindi personalmente dalla fase del bozzetto a quella della lavorazione sul vetro, si trovano in molte Chiese italiane ed estere. Per citare le maggiori, in Italia alcuni suoi lavori sono a Milano (Duomo, Arcivescovado, Chiesa di S. Stefano Maggiore, Santuario di S. Rita alla Barona, Chiesa di S. Maria delle Grazie, Chiesa di St’Angela Merici, Chiesa di S.Anna, ecc.), a Genova (Chiesa di San Teodoro), Reggio Calabria (Tempio della Vittoria, Chiesa Madonna del Rosario, ecc.), Torino (Chiesa dell’Ospedale della Sapienza, ecc.), Caltanissetta (Duomo, Chiesa di S. Biagio, ecc.), Vaticano (Gabinetto privato del Papa), Piacenza (Duomo, ecc.), Avellino (Santuario di Montevergine), Lodi (Ospedale), Monza (Chiesa di San Rocco), Cremona (Chiesa di S. Agata), Ragusa Ibla (Cattedrale), ecc. All’estero ha lavorato in India (Santuario di Bezwada), Birmania (Chiesa delle Pontificie Missioni Estere), Pakistan (Cattedrale di Lyallpur), Venezuela (Cattedrale di Aragua di Barcelona), Perù (Santuario di Lima), Svizzera (Chiasso, Chiesa di Fatima), Cecoslovacchia (Praga), Germania, ecc.
Arte complessa e antica quella delle vetrate, che affonda le sue radici nel medioevo, epoca in cui la luce assume significati e simbologie pregnanti, e che costringe l’artista ad avere anche un’abilità nella manipolazione degli elementi che portano alla composizione del vetro e alla sua decorazione. Per giungere dall’ideazione e realizzazione di un bozzetto all’intera esecuzione di una vetrata è necessaria, con poche differenze rispetto all’epoca medioevale, una lunga catena di operazioni, ognuna di esse momento espressivo decisivo del significato ultimo dell’opera.
Non basta fare un bozzetto e lasciarne poi la realizzazione ad altri, magari a semplici operai, ma per raggiungere il massimo dell’unità compositiva è necessario che il pittore vetratista segua egli stesso tutte le fasi di lavorazione, dal bozzetto al cartone, dalla scelta dei vetri al loro taglio, dall’operazione di accostamento a quella di decorazione e pittura, dalla cura del particolare alle varie fasi di cottura e piombatura. “La vetrata” - diceva sempre Amalia Panigati, - “bisogna farla da soli, fino in fondo. Oggi tutti vogliono fare vetrate, ma credono che basti buttar giù il bozzetto, magari anche bello, e affidare l’esecuzione ad anonimi artigiani in grado solo di riprodurre, con l’ingrandimento meccanico, in maniera fredda e ripetitiva, disegni di altri artisti, che, anche se di fama, non conoscono le particolarità del vetro, del colore a fuoco e della luce, e piegano la materia al soggetto invece di ottenere da essa stimoli per la composizione dell’opera. E’ sbagliato. E alla fine tutti se ne accorgono. L’artista deve conoscere il bistro, gli smalti, i vetri, i forni, il modellato, tutto. Il vetraio deve solo tagliare e legare. La vetrata bisogna sentirla fin dall’inizio, sul disegno, e continuare a farla sul vetro, con i colori, nel forno, cuocere e anche ricuocere. Uno può dire - questa è la mia vetrata - soltanto quando la vede finita veramente. Perché un volto, un abito, uno sfondo cambiano sotto le mani, c’è sempre qualcosa di nuovo da aggiungere, nuove idee, nuove invenzioni. Ecco cos’è l’artista vetratista”.
E’ l’artista, il pittore, che si fa anche artigiano, si specializza in vetrate, per amore dell’unità della propria opera e che crea un equilibrio perfetto tra progettazione e realizzazione.
La Panigati nel corso degli anni elaborò una tecnica nuova che si rivelò particolarmente importante: dipingeva il vetro a colate di pasta vitrea e smalti colorati a fuoco fortissimo. Amalia scrisse: “Questa tecnica ha la caratteristica di rendere la vetrata a riflessi madreperlacei e permette di ottenere infiniti passaggi coloristici, senza incupirla, come è abitualmente d’uso con la pittura a grisailles, tanto da privare la caratteristica luminosa del vetro, ma dando con l’opera del gran fuoco purezze e bagliori di pietre antiche in toni fusi, possenti e grezzi, per così dire da scavo. Viene dato al vetro, lievitandolo, corpo, movimento e vita e gli è resa possibile la visibilità sia controluce che contro opaco”. Le sue ricerche non riguardavano solo il vetro e il colore ma anche il taglio dei vetri e l’intelaiatura dei piombi. “Il mio sforzo” - scrisse - “è stato quello di usare i piombi a formazione di piani e a struttura architettonica della massa, dando ad essi un ruolo di primaria importanza, quale richiede una composizione fatta per essere vista da lontano. Prima mio nonno e poi mio padre ripresero la lavorazione artistica della vetrata dall’epoca dei Bertini, quando era ormai ridotta simile a pittura ad olio da cavalletto, dipinta però con colori minerali a fuoco su vetri colorati base, a tinte violente e contrastanti. Sono passati tanti anni e questo modo è ancora diffusissimo, solo modificato in parte. L’esperienza mi ha fatto persuasa che seguendo la tecnica dei Bertini si abusava del chiaroscuro, del miniato, delle grisailles che rendono sordomuta la vetrata, la rendono cupa privandola dei riflessi delle luci. Si direbbe, per quel che comunemente si vede, che l’ideale della vetrata sia di ottenerla modellandola il più possibile o di bistrare ad aloni uso antico i colori naturali del vetro per attenuare i toni chiassosi e contrastanti che si tende ad usare. L’armatura dei piombi è poi ridotta alla semplice funzione di tenere insieme i vari pezzi di vetro. Oppure si passa all’estremo opposto nel volere eliminare la pittura a grisailles e si utilizza il mosaico vitreo colorato naturale, ricorrendo a null’altro che al piombo per ottenere il contorno del disegno. Nei miei anni di esperienza vetraria e di infinite prove non ho mai cessato di purificare e variare i colori della pasta vetrosa ed ho avuto l’idea di renderla ancora più massiccia con l’opera di reazioni chimiche e con la plasmatura del fuoco fortissimo, liberando la luce dalla pesante bistratura della tradizione dei Bertini e lasciandola filtrare attraverso preziose colorazioni ottenute a forte fusione.
Il Manconi sulla rivista “Domus” di Giò Ponti, nel 1952 parlò di due meriti particolari nelle creazioni artistiche della Panigati: “Prima di tutto quello di rivoluzionare la tradizionale arte della pittura a grisailles su vetro, con la quale spesso si abusa del troppo miniato o del troppo bistrato, rendendo la vetrata opaca e quasi un dipinto parietale, e secondariamente, quello di superare rinvigorendo la vetrata a mosaico vitreo, in cui il colore è dato dalla troppo fredda lastrina di vetro naturale, mentre il disegno è debolmente reso dalla semplice legatura in piombo che regge insieme le lastrine. Nelle creazioni della Panigati le tinte sono graduate in tutte le gamme più raffinate, mentre l’armatura dei piombi accresce sia il rilievo dei volumi che il valore tonale della composizione…I piani cromatici, ottenuti con la pasta vetrosa dipinta a spessore e a colate anziché a superficie e a pennello, dall’arte della Panigati sono resi traslucidi piuttosto che trasparenti, e, attraversati dalla luce, rivelano iridescenze di pietre preziose, ma con toni più intensi. Le vetrate dovute agli altri maestri vetrari rendono la loro bellezza solo se contro luce, e in questo caso non c’è stata novità rispetto ai vecchi maestri, ma quelle della Panigati conservano invece la loro bellezza anche non controluce”.
Alfio Coccia nel 1966 su “Diocesi di Milano” affermò che tre erano i fatti che costituivano l’eccezionalità dell’opera vetratistica della Panigati e che la distinguevano dagli altri artisti: “La profondità prospettica della scena, la varietà e la ricchezza dei vetri che si dispongono in un intarsio tonale pieno di passaggi, ricco sempre di suoni profondi, lunghi e radicati… e infine il raggruppamento geometrico delle figure spesso accentuato da sottoquadri neri… Le sue vetrate non adempiono più alle sole esigenze catechistiche… ma sono un’autentica opera d’arte che fa preziosa la decorazione del tempio.

Matteo Chiarelli

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